Frantoio Ipogeo
Il Frantoio Ipogeo (XVIII secolo)
Scavato nella roccia, è sito al n. 112 dell’ attuale via Roma. I frantoi o “trappeti” più antichi erano, appunto, ricavati nella roccia perché le olive, per poter lasciare staccare l’ olio, necessitano di molto calore che trovavano facilmente nel sotterraneo. In essi vi lavoravano a turno due squadre di operai, il cui capo era detto “nachiru” (nocchiero) e gli altri “trappitari”(frantoiani). Rimanevano nel frantoio, dove mangiavano e dormivano, dal novembre all’ aprile, tanto durava il periodo della lavorazione delle olive sia per l’ abbondanza del prodotto che per il tempo occorrente per ogni macinatura. Erano veri e propri emigranti nel loro stesso paese, destinati a vivere come schiavi, insieme alle bestie in un ambiente buio illuminato soltanto dalla fumosa luce delle lucerne. Scalzi, lerci, unti e bisunti, erano “famosi” per la loro sporcizia, tanto che, quando un bambino andava troppo sporco, veniva apostrofato col dispregiativo di “trappitaru”. Le macchine olearie erano costituite dalla macina e dai torchi. La prima era una grande vasca rotonda nella quale girava, spinta da un mulo bendato, una grossa ruota di pietra. Le olive venivano schiacciate dalla ruota in due tempi perché essa non aveva le palette mescolatrici. Fatta la prima macinatura, la pasta veniva conservata nel “fisculone” (grosso fiscolo di giunco). Un frantoiano rimetteva sotto la pietra le olive rimaste ai bordi della vasca e le faceva rimacinare. Questa seconda pasta veniva chiamata “mammareddha” (piccola madre) e con la prima formava lu “conzu” (colonna di fiscoli spalmati di pasta messa sotto il torchio). Per ogni frantoio vi era un torchio grande per la prima pressione e quattro piccoli per la seconda. Erano di legno massiccio ed a vite. La stretta veniva data per mezzo di una stanga mobile che si infilava in appositi fori nella testa della vite. La stanga era spinta dagli operai con diverse “sciunte” (il tempo di una stretta). Alla base era scavata una vaschetta rotonda, l’ “angiulu” (l’ angelo), dove si raccoglieva il liquido colato dal torchio. Il tempo della pressione completa durava dalle cinque alle sei ore. L’ olio galleggiante nell’ “angiulu” veniva raccolto con un piatto incavato, la “sciuvanna”. La sentina veniva scaricata nei “santinari”, che erano dei pozzi assorbenti. La sanza, chiamata localmente “nghife”, veniva utilizzata come legna per cuocere la “pignata” (pentola di terracotta per i legumi) dei frantoiani. Accanto alla stalla per la mula vi erano il giaciglio degli operai, il focolare, il gabinetto ed i depositi delle olive riempibili dall’ esterno. La raccolta delle olive impegnava tutta la famiglia, dai piccoli ai grandi, e nelle annate piene, quando c’ era la “ntrata” (l’ abbondanza), spesso si doveva ricorrere all’ aiuto delle “sciurnatiere” (contadine lavoranti giornata). I ragazzi dovevano raccogliere quelle cadute oltre le piazzole, le donne quelle dentro, mentre lu “tata” (il padre) con i fratelli più grandi “spruavane” (le staccavano dai rami). Il tutto si doveva fare rigorosamente con le mani e… guai se qualcuno si azzardava a scuotere i rami col bastone!.
Fonte:
-M. Musca, “Un anno a Sannicola”, 1990.